giovedì 13 febbraio 2020

Joker



Nella scuola dei miei tempi esisteva solo il tema di italiano, non si poteva scegliere tra diverse tipologie come l’analisi del testo letterario, argomentativo o espositivo; venivano assegnate solo un paio di tracce su argomenti che potevano riguardare i massimi sistemi oppure in alternativa si poteva svolgere il fatidico e insidioso tema di attualità, che era quasi sempre mellifluo e scivoloso, perché se sostenevi una tesi precisa, finiva poi con il mancare nel testo una antitesi che il professore, guarda caso, maneggiava perfettamente. Inoltre si poteva finire con estrema facilità su posizioni radicali (da giovani è facile) oppure non essere sufficientemente informati su quelle precise tematiche, per cui alla correzione mi ritrovavo con puntuali annotazioni dell’insegnante che, in maniera implicita, m’invitava la prossima volta a scegliere un’altra traccia. Naturalmente aveva ragione l’insegnante, anche perché i miei temi di attualità si articolavano sempre allo stesso modo: qualsiasi fosse il problema da affrontare e sviscerare, alla fine delle argomentazioni e delle analisi era tutta colpa della società. Al tempo “la società” rappresentava per me un ordine simbolico perfetto, con cui potevo scaricare tutta la colpa a qualcosa che non si sapeva bene dove fosse e, soprattutto, non poteva difendersi.

Ho ripensato alla mia facile propensione nel dare la colpa alla società guardando “Joker” di Todd Phillips, perché in effetti ogni aspetto della vita di Arthur Fleck sembra costruito per far sì che il protagonista non abbia nessuna possibilità di salvezza, perdendo mano a mano ogni speranza e ogni possibilità di riscatto. Il protagonista è affetto da disturbi psichici, ma gli assistenti sociali non possono più somministragli i farmaci a causa dei “tagli” alla spesa pubblica; viene licenziato perché gli cade una pistola che teneva con sé perché era stato aggredito, mentre si stava esibendo in ospedale davanti a dei bambini; la madre, apparentemente suo unico punto di riferimento, si rivela essere una persona con gravi turbe psicologiche che per tutta la vita costruisce un castello di menzogne intorno alla fragile personalità del protagonista. Insomma la deriva morale di Arthur avviene suo malgrado, come se la scelta di abbracciare la sua ombra, accettando l’idea che uccidere in fondo non è niente, fosse ineluttabile. Arthur si trasforma in Jocker in quanto abbandonato da tutto e tutti, perché «la parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi». Ed ecco svelato il vero volto della “società”: la società sono le persone, ovvero ciascuno di noi con la precisa responsabilità morale di dover fare ogni giorno la scelta giusta. In questa direzione Joker è un film politico nell’accezione più ampia del termine, perché restituisce la responsabilità di quel che accade alla volontà degli uomini che possono determinare il migliore o il peggiore dei mondi possibili. E infatti la discesa agli inferi di Arthur sembra solo apparentemente coincidere con le sommosse dei cittadini di Gotham, stanchi di vivere in una città in mano alla criminalità; in realtà Joker viene ad essere il coagulante dell’odio e della violenza sociale, egli è al contempo causa ed effetto, idolo involontario e quindi come ogni eidolon che si rispetti, forma e figura della realtà sociale. Non a caso la maschera di Joker è il simulacro che afferma senza dubbi: «Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti».

In questa direzione è interessate provare a collegare il film di Todd Phillips con Taxi driver di Martin Scorsese, e non solo per le due eccelse interpretazioni di Joaquin Phoenix per Joker e di Robert De Niro per il tassista alienato e disadattato, ma soprattutto per il modo in cui i due protagonisti partendo da posizioni marginali, finiscono per assurgere a immagine e simbolo dell’indignazione popolare. Loro malgrado sia Joker che il taxi driver vengono presi a modello dalla gente, tuttavia se dietro al tassista c’è una sorta di volontà purificatrice (sia pur malata), per cui il desiderio del protagonista è di ripulire la città dall’ipocrisia e dalla criminalità, non a caso egli parla dei suoi propositi come di una “missione”; Joker invece sembra vivere ogni cosa dentro la sua devastante e personale psicosi che non ha finalità se non quella di consumarsi in una violenza fine a se stessa. Entrambi sono sintomi della patologia mortale che attanaglia periodicamente l’umanità, ma nel caso di Joker c’è un salto di qualità poiché questa volta il sintomo coincide con la malattia: ovvero quello che non riusciamo o non vogliamo capire e quindi non siamo in grado di rimediare o prevenire appare e si manifesta come qualche cosa con cui non ci identifichiamo. Joker siamo noi, il nostro lato oscuro assunto a capro espiatorio, il folle, l’emarginato, il diverso. Pertanto Joker non può morire non tanto perché è il nemico di Bat Man, ma in quanto nemesi assoluta di ciascuno di noi, ovvero immagine dell’ordine simbolico che continuiamo a chiamare società.

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