venerdì 13 novembre 2020

Narrare il mondo



La perdita dell’esperienza del mondo, ovvero l’impossibilità dell’uomo contemporaneo di interpretare la realtà attraverso gli strumenti letterari ci conduce verso una nuova definizione e una nuova idea di narrazione. Ciò che Walter Benjamin aveva indicato come perdita dell’oralità e della conseguente comunicabilità dell’esperienza, viene ripreso e aggiornato da Italo Calvino in una sorta di sfida lanciata alla modernità. I termini della contesa ora non riguardano più l’uomo e la capacità di scambiare oralmente esperienze bensì il senso e la necessità di produrre ancora letteratura, poesia e prosa, in tempi in cui ogni cosa sembra essere già stata catalogata, uniformata e, in definitiva, omologata. Se è vero che è stata perduta la capacità di scambiarci esperienze attraverso la narrazione, allora la letteratura ci apparirà come svuotata di senso e di significato. Non a caso è già dalla seconda metà degli anni Ottanta che si delinea in modo sempre più evidente l’avvento di un mondo trasformato dai mezzi di comunicazione di massa: un mondo modificato radicalmente da nuovi mass media, attraverso cui scorrono quotidianamente grandi flussi di informazioni che rendono obsoleto qualsiasi forma di esperienza umana. Scrive Italo Calvino che «ogni cosa che vedo nelle vie della città ha già il suo posto nel contesto dell’informazione omogeneizzata. Questo mondo che io vedo, quello che viene riconosciuto di solito come il mondo, si presenta ai miei occhi – almeno in gran parte – già conquistato, colonizzato dalle parole, un mondo che porta su di sé una pesante crosta di discorsi. I fatti della nostra vita sono già classificati, giudicati, commentati, prima ancora che accadano. Viviamo in un mondo dove tutto è già letto prima ancora di cominciare a esistere».

Se a detta di Walter Benjamin il “narratore prende ciò che narra dall’esperienza, dalla propria o da quella che gli è stata riferita”, come sarà possibile continuare a raccontare dopo che l’uomo ha perduto la facoltà di scambiare esperienze? E ancora: se la funzione della letteratura si è sciolta in un mondo colonizzato dalle parole, dove troveremo ancora la forza di significare, di produrre senso in un universo incrostato di discorsi? Bene ha scritto Antonio Scurati ricordando che fu lo stesso Calvino, chiamato a riscrivere la presentazione al suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, ad affrontare il nodo irrisolto relativo alla relazione, ormai perduta, tra letteratura ed esperienza. «La letteratura (intesa come insieme delle operazioni di scrittura e lettura) e l’esperienza – scrive Scurati - stanno oggi dinnanzi a noi come le due metà non combacianti di una tessera spezzata e non più ricomponibile. Non si compongono non perché manchi la commessura tra di esse ma perché sono perfettamente identiche. Anzi, la parola esatta è ‘indifferenziate’. Sono i due frammenti di una totalità infranta (…) Il Calvino del ’47 poté fare grande letteratura dal suo «stato di povertà», attingendo a una «forza vitale ancora oscura» in cui si saldavano «l'indigenza del ‘troppo giovane e l’indigenza degli esclusi e dei reietti» perché, appena ventenne, era già carico dell’esperienza della guerra, cominciava cioè a scrivere «dopo un’esperienza ‘di quelle con tante cose da raccontare’». (…) La letteratura mantiene un rapporto fondamentale con l’esperienza, la fonda e si fonda su di essa. Ma (…) è la struttura stessa dell’esperienza a essere andata distrutta nelle condizioni di vita della società tardo-moderna. Il mondo oggi non ‘si vive’, e la sua conoscenza non riposa più sull’esperienza. Al contrario, l’inesperienza è la condizione trascendentale dell’esperienza attuale. L’inesperienza è la nuova forma d’indigenza, il nuovo senso di «nullatenenza assoluta» da cui nascono i romanzi di oggi. L’inesperienza, questo è il nostro stato di povertà di oggi, da cui siamo chiamati a fare letteratura. L’indigenza peculiare, come già intravide Calvino quarant’anni fa, della società sommersa dalla «quantità di beni superflui e troppo presto soddisfatta». Oggi, più viviamo più siamo inesperti della vita. L’inesperienza si accumula innaturalmente come un tempo si cumulava, naturalmente, l’esperienza». L’analisi di Antonio Scurati ci conduce quindi a pensare le ultime prove di Italo Calvino come una testimonianza sulla perdita di ruolo e funzione della letteratura e, nel contempo, anche come opere che documentano la ricerca verso nuove possibilità del narrare nonché infine come opportunità per intraprendere nuove strade. Da Ti con zero fino a Sotto un sole giaguaro, Calvino sembrò incarnare sempre più la figura del cartografo, intento a disegnare mappe e cartine raffiguranti territori inesplorati e nuovi sentieri, ponendo così confini e strade ma anche cancellando limiti là dove nessuno aveva fino ad allora immaginato l’esistenza di un territorio. L’ultimo Calvino segna mappe geografiche operando una sorta di riduzione dell’universo delle storie a segno visivo; costruisce un ipervisualismo destinato a divenire il nuovo modello d’interpretazione della realtà. La sfida lanciata da Calvino alla complessità della modernità è una sorta di riaffermazione degli strumenti conoscitivi della letteratura: là dove termina la tecnica e dove ogni cosa può essere messa in luce, inizia la strada oscura del mito, della fiaba. Palomar trasforma il reale in superficie riquadrata, traducendo ogni accadimento, oggetto ed esperienza in immagine, ma quando si accorge che “la superficie delle cose è inesauribile” allora si rende conto che “non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare”. L’uomo può conoscere scientificamente il mondo e giungere a conclusioni valide per il proprio progresso e sviluppo; ma per quanto sia utile e necessario sperimentare, verificare e in definitiva migliorare la propria condizione, dovrà sempre affrontare l’esplorazione della propria “geografia interiore”.

Di fronte al mondo non scritto Calvino afferma che è possibile solamente la creazione visuale, la figurazione di un universo che è segno e, in definitiva, unità di arte e natura. Ecco che Palomar può guardare “il mondo dall’interno d’un io che possa dissolversi e diventare solo sguardo”, sconfiggendo la morte nel momento stesso in cui non penserà più di essere morto. Ma l’uomo che classifica, enumera e trasforma in grafema perfino tutti gli istanti del tempo non può più compiere altro né può giungere al termine del proprio lavoro, così Palomar “in quel momento muore”. Nell’ultimo Calvino l’incontro tra sguardo e mondo avviene nell’unico luogo ancora da abitare, nello spazio dove è ancora possibile tradurre grafismi e vedere segni: ovvero nel linguaggio, poiché “la menzogna non è nel discorso, è nelle cose” e solo la lingua, vettore e codice del mondo scritto, può consegnarci ancora l’esperienza della narrazione. La letteratura può ancora significare, produrre senso e direzione, perché nelle pieghe delle parole c’è vita e sangue; l’arte del racconto non è perduta né il nuovo mondo sommerso dalle informazioni, spesso inutili, può arrestare il desiderio dell’uomo di creare nuove storie; anzi altri modi per ingannare la morte.