La
perdita dell’esperienza del mondo, ovvero l’impossibilità dell’uomo
contemporaneo di interpretare la realtà attraverso gli strumenti letterari ci
conduce verso una nuova definizione e una nuova idea di narrazione. Ciò che
Walter Benjamin aveva indicato come perdita dell’oralità e della conseguente
comunicabilità dell’esperienza, viene ripreso e aggiornato da Italo Calvino in
una sorta di sfida lanciata alla modernità. I termini della contesa ora non
riguardano più l’uomo e la capacità di scambiare oralmente esperienze bensì il
senso e la necessità di produrre ancora letteratura, poesia e prosa, in tempi
in cui ogni cosa sembra essere già stata catalogata, uniformata e, in
definitiva, omologata. Se è vero che è stata perduta la capacità di scambiarci
esperienze attraverso la narrazione, allora la letteratura ci apparirà come
svuotata di senso e di significato. Non a caso è già dalla seconda metà degli
anni Ottanta che si delinea in modo sempre più evidente l’avvento di un mondo
trasformato dai mezzi di comunicazione di massa: un mondo modificato
radicalmente da nuovi mass media, attraverso cui scorrono quotidianamente grandi
flussi di informazioni che rendono obsoleto qualsiasi forma di esperienza
umana. Scrive Italo Calvino che «ogni cosa che vedo nelle vie della città ha
già il suo posto nel contesto dell’informazione omogeneizzata. Questo mondo che
io vedo, quello che viene riconosciuto di solito come il mondo, si presenta ai miei occhi – almeno in gran parte – già
conquistato, colonizzato dalle parole, un mondo che porta su di sé una pesante
crosta di discorsi. I fatti della nostra vita sono già classificati, giudicati,
commentati, prima ancora che accadano. Viviamo in un mondo dove tutto è già
letto prima ancora di cominciare a esistere».
Se
a detta di Walter Benjamin il “narratore prende ciò che narra dall’esperienza, dalla
propria o da quella che gli è stata riferita”, come sarà possibile continuare a
raccontare dopo che l’uomo ha perduto la facoltà di scambiare esperienze? E
ancora: se la funzione della letteratura si è sciolta in un mondo colonizzato dalle parole, dove troveremo
ancora la forza di significare, di produrre senso in un universo incrostato di discorsi? Bene ha scritto
Antonio Scurati ricordando che fu lo stesso Calvino, chiamato a riscrivere la
presentazione al suo primo romanzo Il
sentiero dei nidi di ragno, ad affrontare il nodo irrisolto relativo alla
relazione, ormai perduta, tra letteratura ed esperienza. «La letteratura
(intesa come insieme delle operazioni di scrittura e lettura) e l’esperienza –
scrive Scurati - stanno oggi dinnanzi a noi come le due metà non combacianti di
una tessera spezzata e non più ricomponibile. Non si compongono non perché
manchi la commessura tra di esse ma perché sono perfettamente identiche. Anzi,
la parola esatta è ‘indifferenziate’. Sono i due frammenti di una totalità
infranta (…) Il Calvino del ’47 poté fare grande letteratura dal suo «stato di
povertà», attingendo a una «forza vitale ancora oscura» in cui si saldavano
«l'indigenza del ‘troppo giovane e l’indigenza degli esclusi e dei reietti»
perché, appena ventenne, era già carico dell’esperienza della guerra,
cominciava cioè a scrivere «dopo un’esperienza ‘di quelle con tante cose da
raccontare’». (…) La letteratura mantiene un rapporto fondamentale con
l’esperienza, la fonda e si fonda su di essa. Ma (…) è la struttura stessa
dell’esperienza a essere andata distrutta nelle condizioni di vita della
società tardo-moderna. Il mondo oggi non ‘si vive’, e la sua conoscenza non
riposa più sull’esperienza. Al contrario, l’inesperienza
è la condizione trascendentale dell’esperienza attuale. L’inesperienza è la nuova forma
d’indigenza, il nuovo senso di «nullatenenza assoluta» da cui nascono i romanzi
di oggi. L’inesperienza, questo è il
nostro stato di povertà di oggi, da cui siamo chiamati a fare letteratura.
L’indigenza peculiare, come già intravide Calvino quarant’anni fa, della
società sommersa dalla «quantità di beni superflui e troppo presto
soddisfatta». Oggi, più viviamo più siamo inesperti della vita. L’inesperienza
si accumula innaturalmente come un tempo si cumulava, naturalmente,
l’esperienza». L’analisi
di Antonio Scurati ci conduce quindi a pensare le ultime prove di Italo Calvino come
una testimonianza sulla perdita di ruolo e funzione della letteratura e, nel
contempo, anche come opere che documentano la ricerca verso nuove possibilità
del narrare nonché infine come opportunità per intraprendere nuove strade. Da Ti con zero fino a Sotto un sole giaguaro, Calvino
sembrò incarnare sempre più la figura del cartografo, intento a disegnare mappe
e cartine raffiguranti territori inesplorati e nuovi sentieri, ponendo così
confini e strade ma anche cancellando limiti là dove nessuno aveva fino ad
allora immaginato l’esistenza di un territorio. L’ultimo Calvino segna mappe
geografiche operando una sorta di riduzione dell’universo delle storie a segno visivo; costruisce un
ipervisualismo destinato a divenire il nuovo modello d’interpretazione della
realtà. La sfida lanciata da Calvino alla complessità della modernità è una
sorta di riaffermazione degli strumenti conoscitivi della letteratura: là dove
termina la tecnica e dove ogni cosa può essere messa in luce, inizia la strada
oscura del mito, della fiaba. Palomar trasforma il reale in superficie
riquadrata, traducendo ogni accadimento, oggetto ed esperienza in immagine, ma
quando si accorge che “la superficie delle cose è inesauribile” allora si rende
conto che “non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal
pensare”. L’uomo può conoscere scientificamente il mondo e giungere a
conclusioni valide per il proprio progresso e sviluppo; ma per quanto sia utile
e necessario sperimentare, verificare e in definitiva migliorare la propria
condizione, dovrà sempre affrontare l’esplorazione della propria “geografia
interiore”.
Di fronte al mondo non scritto Calvino
afferma che è possibile solamente la creazione visuale, la figurazione di un
universo che è segno e, in definitiva, unità di arte e natura. Ecco che Palomar
può guardare “il mondo dall’interno d’un io che possa dissolversi e diventare
solo sguardo”, sconfiggendo la morte nel momento stesso in cui non penserà più
di essere morto. Ma l’uomo che classifica, enumera e trasforma in grafema
perfino tutti gli istanti del tempo non può più compiere altro né può giungere
al termine del proprio lavoro, così Palomar “in quel momento muore”. Nell’ultimo Calvino l’incontro tra sguardo e
mondo avviene nell’unico luogo ancora da abitare, nello spazio dove è ancora
possibile tradurre grafismi e vedere segni: ovvero nel linguaggio, poiché “la
menzogna non è nel discorso, è nelle cose” e solo la lingua, vettore e codice
del mondo scritto, può consegnarci ancora l’esperienza della narrazione. La
letteratura può ancora significare, produrre senso e direzione, perché nelle
pieghe delle parole c’è vita e sangue; l’arte del racconto non è perduta né il
nuovo mondo sommerso dalle informazioni, spesso inutili, può arrestare il
desiderio dell’uomo di creare nuove storie; anzi altri modi per ingannare la
morte.