venerdì 26 aprile 2013

Biglietto lasciato prima di non andare via


    Se non dovessi tornare,
    sappiate che non sono mai partito.
    Il mio viaggiare
    è stato tutto un restare qua,
    dove non fui mai
    (Giorgio Caproni)

Come si misura il transito, il nostro passaggio sulla terra? Quali sono le cose importanti, i sentimenti, le ragioni misteriose che ci legano al posto che scegliamo di abitare o alle persone che restituiscono un senso alla nostra esistenza? Se la metafora della vita come viaggio è antica come la stessa letteratura, la domanda allora potrebbe suonare come: “Quali sono i porti presso i quali in modo apparentemente arbitrario abbiamo scelto di attraccare e, ancora, cosa succede quando torniamo nelle stesse città o attraversiamo lo stesso mare? ”.

Il poema che costituisce insieme all'Iliade la base della cultura occidentale è senza dubbio l'Odissea di Omero. Opera che segna il passaggio dalla civiltà orale a quella scritta, storia di tanti viaggi dentro un unico viaggio, primo vero e proprio romanzo di formazione. L'Odissea è la storia di un andare che è anche un tornare, una crescita esistenziale dentro l'ignoto e le sue sfide che coincidono anche con il desiderio, la nostalgia di tornare a casa. Infatti il ​​poema sembra essere sotteso da un paradosso: ovvero quello che afferma che per crescere occorre affrontare mille sfide, attraversare il mondo conosciuto e sconosciuto, sapendo poi che tutto quel viaggiare avrà esito positivo solo se ci permetterà di arrivare là dove un giorno partimmo. Forse è per questa ragione che ci accorgiamo delle nostre radici solo quando abbiamo fatto tanta strada davanti a noi e quelle persone che, da ragazzi, ci apparivano confuse, distanti, col tempo diventano nitide, in luce: le linee del viso di un nonno, un difetto caratteriale di un genitore, ma anche le particolarità riconosciute nelle persone incontrate che ci hanno restituito qualcosa di indefinibilmente famigliare. Come se solo alcuni hanno avuto il ​​dono di restituirci l'immagine del nostro Sé, il senso preciso del nostro appartenere a questa terra. 

La poesia di Caproni parla di viaggi immobili e di sedentarietà irrequiete, mai ferme: dice che se anche indossiamo la stessa pelle, migliaia di cellule muoiono e rinascono dentro di noi e dunque siamo sempre noi stessi, nel momento in cui non siamo più noi stessi. Siamo qui, tuttavia sempre in movimento: ci spostiamo e viaggiamo, ma qualcosa di noi non ci segue mai. Ci precede, ci aspetta, rimane in definitiva come un fantasma ad abitare luoghi che abbiamo amato; strade, giardini, spiagge, paesi. Ci sono città dove ancora abbracciamo le persone che abbiamo amato, sentieri di campagna dove una figura famigliare ci cammina accanto. E non sono ricordi o nostalgia, ma la certezza che certi viaggi si fanno al contrario e che il punto d'arrivo è sempre un punto dal quale un giorno partimmo.

Scrivono i manuali che la sensazione di alterazione dei ricordi è una deformazione delle funzioni cognitive di riconoscimento (attenzione) e di recupero (memoria), inficiato da un alto valore emotivo. Ma senza emozioni non si fissano i ricordi e l'attenzione declina inesorabilmente, inevitabilmente. Senza valore emotivo le sinapsi nel nostro cervello ci ricordano solo che dobbiamo mangiare, dormire, lavarci. Affrontare il nostro ritorno è cosa più complessa, significa continuare ad andare avanti sapendo che tutto il nostro viaggiare avrà avuto un senso solamente se ci riporterà a casa, dentro noi stessi, là dove un giorno partimmo.




mercoledì 20 febbraio 2013

The artist is present



«Nella performance non c’è merce, non c’è un prodotto da vendere,
tutto deve (…) continuare a essere
la forma d’arte più immateriale che esista».
(Marina Abramović)

Nel 2010 il Museo di Arte moderna di New York (MoMA) ha dedicato a Marina Abramović la più grande retrospettiva mai realizzata sulla performance art. L’artista serba, nata il 30 novembre del 1946 a Belgrado, è considerata un’icona dell’arte performativa, a cui si dedica dal 1973. Alcune sue performance sono divenute famose per la forza e, in alcuni casi, per la violenza con cui l’artista era solita spingere il proprio corpo e la propria persona al di là dei confini che ogni individuo impone a se stesso. Ad esempio nei primi Rhythm il tema dell’energia prodotta dal dolore e l’idea del corpo inteso come mezzo di conoscenza profonda del sé costituiscono la sua principale fonte d’ispirazione, mentre è l’idea di limite inteso come soglia per un nuovo, più alto grado di consapevolezza, ma anche come barriera da non oltrepassare, che sembra attraversare tutta l’opera di Marina Abramović. Per queste ragioni l’artista è rimbalzata spesso nelle cronache dell’arte contemporanea accompagnata da aggettivi quali “estrema” o “radicale”, ma suscitando sempre e comunque emozioni fortissime.

Sorprende allora scoprire che nella rassegna preparata dal MoMA in cui è stato affidato a trenta giovani artisti il compito di rimettere in scena le principali performance della Abramović, l’artista abbia deciso di eseguire una particolare e inedita performance: infatti dal 14 marzo al 31 maggio Marina Abramović si è messa a disposizione del pubblico, restando immobile su una sedia, in una grande sala vuota, per sei giorni alla settimana dall’apertura alla chiusura del museo. Chiunque poteva sedersi e rimanere tutto il tempo che desiderava davanti a lei, e a chiunque l’artista ha dedicato il suo tempo, lo sguardo e i suoi occhi fissi negli occhi dell’ospite del momento. Senza proferire una parola, senza un movimento: solo i suoi occhi dentro gli occhi di uno sconosciuto. Non sorprenderà allora sapere che un particolare alquanto significativo della performance di Marina Abramović è da individuarsi nella forte teatralità della scena poiché, se è vero che la stanza era praticamente vuota (solo un tavolo e due sedie poste una davanti all’altra), è altresì vero che l’artista era sempre vestita con abiti lunghi e colorati e, tra una persona e l’altra, lo sguardo era sempre rivolto verso il basso con gli occhi chiusi. Solo quando il nuovo ospite prendeva posto, solo in quel momento, il capo si alzava di nuovo e gli occhi si aprivano. Sì, aprirsi è il verbo esatto perché Marina Abramović era davvero lì per ciascuno delle centinaia di persone che si sono succedute sulla sedia davanti a lei. Un’apertura verso l’altro come se fosse stata la celebrazione di un rito purificatore; e non è un caso che molte persone che hanno partecipato alla performance si sono commosse fino alle lacrime. Specchiandosi negli occhi dell’artista si sono visti riconsegnare la propria immagine, senza poter fingere e senza poter mentire a nessuno, soprattutto a se stessi. Se la performance è un’espressione artistica dove è il corpo, i suoi atti e i gesti, che creano un’opera d’arte allora stare seduti, immobili, con gli occhi a cercare altri occhi di un altro individuo, può solo significare che è il silenzio lo spazio di mediazione tra l’artista e il suo pubblico. La performance ci parla senza dubbio della necessità di rallentare la nostra corsa quotidiana e di prendere coscienza dell’affanno e dell’ansia per i nostri tempi accelerati, perché davvero non c’è bisogno di parlare se i nostri occhi s’incrociano negli occhi di uno sconosciuto. Quello che secondo Sartre è «l’abisso degli occhi dell’altro», Marina Abramović lo ha trasformato in un incondizionato atto d’amore, restituendo alla dimensione della relazione umana (anche se fatta di silenzio) la nostra profondità di senso e, in definitiva, la nostra ansia di verità.  

Forse il segreto della performance è racchiuso proprio nel titolo: The artist is present, là dove è la presenza a dare valore e significato all’esibizione artistica. Se ogni cosa, oggi, sembra vivere in continua assenza del nostro io e nell’assidua moltiplicazione dei nostri alias, avatar, allora Marina Abramović ha posto con forza la necessità del corpo, dell’esserci, nonché l’ineluttabilità dello sguardo e degli occhi riversi negli occhi di un altro-da-noi. Possiamo ingannare il mondo intero, continuare a mentire a noi stessi e anche far finta di crederci, ma difficilmente riusciremo a fingere se uno sguardo ti porrà una semplice e sola domanda: io sono qui per te, e tu?