domenica 3 dicembre 2017

Anche gli uccelli uccidono


Tomorrow see the things that never come
(N. Young, Birds)

Nel 1970 Robert Altman dirige il film “Brewster McCloud”, in Italia uscito con il titolo “Anche gli uccelli uccidono”. La vicenda descrive il sogno di un giovane, impegnato a costruire un macchina che gli permetta di volare. Accanto a lui c'è la giovane Lousie che, anche se condivide il suo sogno e lo ricambia, ha deciso che non si concederà sessualmente a lui finché il loro progettto non si sarà realizzato. La relazione con Louise si interromperà quando Brewster avrà un rapporto con la giovane Suzanne. Dunque c'è un sogno vincolato a un patto di castità che si spezza quando quella purezza viene meno: volare preclude leggerezza, assenza di corporeità, sguardo rivolto al cielo, mentre il richiamo del piacere sessuale conduce verso il basso e distoglie la vista da quel loro ideale. Nel frattempo nella storia avvengono misteriosi omicidi, tutti legati da un comune denominatore, infatti continuano a morire tutte le persone che, per un motivo o per un altro, si frappongono tra Brewster e la realizzazione del suo progetto. Saranno solamente le parole di Suzanne che, ascoltata la confessione degli omicidi da parte di Brewster, condurrà la polizia all'interno dell'Astrodome dove il giovane tenterà fallendo il volo e si schianterà al suolo.

Paradossalmente nella vicenda gli omicidi non si configurano come crimini efferati, mentre l'abiura dal patto di purezza conduce il protagonista al fallimento dello scopo e alla morte. Brewster personifica di fatto il sogno fallito di un'intera generazione che aveva riposto negli ideali di amore, pace e fratellanza le basi per la costruzione di una nuova era. Infatti tra il 1968 e il 1969 quel sogno che sembrò davvero realizzarsi, s'infranse e precipitò: si dissolse nell'omicidio di Sharon Tate, uccisa il 9 agosto 1969 dai seguaci di Charles Manson, convinti di poter far esplodere una rivoluzione contro la società borghese e capitalista; si dissolse nell'immondizia lasciata dal festival di Woodstock, tenutosi tra il 15 e il 18 agosto 1969, in cui, all'apice della diffusione della cultura hippie, si affacciò per la prima volta l'idea che dietro a quel mondo ci poteva essere anche una montagna di denaro.

Il film di Altman riflette sulla perdita della purezza di quel mondo giovanile piuttosto che sulla sconfitta avvenuta per l'opposizione degli ambienti conservatori della società. Il fallimento di quel sogno, racchiuso nella metafora del volo, ebbe più cause interne che esterne, poiché la sconfitta di quella visione generazionale avvenne non tanto per la repressione della polizia e dell'esercito, quanto piuttosto per l'accettazione dei medesimi meccanismi economici degli oppositori, ovvero quando i figli dei fiori introiettarono le stesse dinamiche finanziarie di scambio e di produzione dei loro padri. In questa direzione, in "Anche gli uccelli uccidono", accettare la relazione con Suzanne da parte di Brewster compromise irrimediabilmente il patto con Louise, facendo venire meno il sostegno utopistico che reggeva il sogno del volo e, allo stesso modo, la generazione del '68 scegliendo la lotta armata e lo scontro omicida (si consideri che i Weatherman si costituiscono nel 1969) non condusse due schieramenti inconciliabili alla guerra, ma al fallimento della generazione del sessantotto che, nata per essere geneticamente diversa da quella dei padri, finì con il divenire l'altra faccia della stessa medaglia.

Poco dopo l'uscita di “Anche gli uccelli uccidono” morirono Jimi Hendrix, il 18 settembre e Janis Joplin il 4 ottobre 1970, mentre l'escalation della lotta armata iniziò di lì a poco, tanto che nel 1970 i Weatherman pubblicarono una “dichiarazione di guerra” contro il governo degli Stati Uniti. Fu l'inizio di una stagione nata già morta, finita nell'attimo esatto in cui nacque, sconfitta nel preciso momento in cui cominciarono ad esplodere le bombe e a morire persone innocenti. Forse per questo in “Pastorale americana” Philip Roth, a proposito di quel sogno infranto, disciolto nel terrorrismo, fa pronunciare alla giovane protagonista, che aderisce alla lotta armata, queste parole: “capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”.

mercoledì 19 aprile 2017

Elogio della noia

La noia non è altro che una mancanza del piacere,
che è l'elemento della nostra esistenza,
e di cosa che ci distragga dal desiderarlo
(G. Leopardi)

A volte incrociare i dati e le conclusioni delle ricerche universitarie produce nuove consapevolezze, ci si trova improvvisamente di fronte a un punto di vista inedito che porta a sintesi inaspettate, a volte illuminanti. È il caso del risultato dello studio del dipartimento di scienze sociali della Rutgers University del New Jersey che ha stabilito che l'80% dei post che appaiono sui Social media riguardano esperienze vissute nel momento stesso in cui vengono pubblicate. In sostanza vi è una forte tendenza a far coincidere le nostre emozioni, ciò che proviamo quotidianamente, con la condivisione in rete, come se il filtro della nostra coscienza non fosse più dentro di noi, ma all'esterno, ovvero sulle timeline dei principali Social network. Affidiamo sempre più a Internet il compito di rielaborare i moti del nostro animo, soprattutto attraverso la gratificazione dei “mi piace” e dei commenti. A ciò possiamo aggiungere lo studio della prestigiosa Harvard, che ha stabilito una forte correlazione tra il compiacimento prodotto dalle nostre apparenti interazioni in rete con il rilascio da parte del cervello di dopamina: la stessa che si manifesta quando assaggiamo del buon cibo, pratichiamo sesso o ci sottoponiamo ad un soddisfacente esercizio ginnico e sportivo.

La conclusione appare evidente, cerchiamo (e troviamo) nella rete e nei social media quella gratificazione fisica, ancor prima che psicologica, che ci permette di sopportare la frustrazione della noia e dell'attesa. Quello sguardo che posiamo su ciò che accade sugli schermi dei nostri smartphone ha a che fare con il piacere rilasciato dai nostri neurotrasmettitori cerebrali, poiché condividere pubblicamente un'emozione viene ricompensato dal nostro cervello con la somministrazione di un piccolo godimento, una breve scarica elettrica di piacere. Quindi apparentemente nei Social cerchiamo gli altri, sotto forma di comunicazione e di condivisione, mentre in verità creiamo uno sguardo speculare che cerca e insegue solamente noi stessi, la nostra immagine. Si parla sempre più diffusamente di narcisismo digitale, ma non si riflette sul corollario che dal compiacimento verso noi stessi conduce verso la fuga dal tedio, visto sempre più come zona morta, da “riempire” ad ogni costo con qualsiasi cosa, di qualsiasi tipo. Non resistiamo più di fronte all'attesa, non sopportiamo più la contemplazione del vuoto: tutto deve correre e scorrere, anche senza senso e direzione, pur di evitare il silenzio e la noia. Quando i guru del marketing compresero che ci doveva essere musica ovunque, perché ciò rendeva più facile le transazioni commerciali, non si resero conto che non era tanto il piacere di una bella canzone che predisponeva all'acquisto, quanto piuttosto la distrazione che essa provocava nonché lo scivolamento verso le emozioni. Ed infatti quando smettiamo di pensare e ci abbandoniamo alla dittatura dei sensi, diventiamo tutti fragili prede.

La noia è vitale e salvifica, ci permette di scendere e scavare dentro di noi, piuttosto che scivolare sulla superficie delle cose che accadono. L'attesa dunque non è solo una porzione di tempo che intercorre tra due eventi, ma è uno spazio fisico, una stanza che abitiamo e in cui riconosciamo noi stessi. Dentro la noia non c'è solo la privazione del piacere, bensì la ricerca dell'essenza, chi sceglie quello spazio liminale dove non si è continuamente sollecitati come in un luna park, sceglie di abitare se stesso ancor prima della propria immagine. La noia è il silenzio, l'attimo necessario che precede una finestra che si apre, l'aria che entra e lo sguardo che ricomincia il suo viaggio. 

giovedì 16 marzo 2017

Voglio essere amata da te

I wanna be loved by you
just you and nobody else but you

Nel giugno del 1962 il fotografo Bert Stern trascorre tre giorni all'Hotel Bel-Air di Los Angeles per un progetto artistico commissionato dalla rivista Vogue. Insieme a lui c'è la donna più desiderata al mondo, Marylin Monroe, che rimarrà nuda, coperta solamente da lenzuola o da qualche foulard, davanti al fotografo per tutto il tempo. Marylin ha trentasei anni ed è bellissima, forse ancor più di quando era ragazza eppure, nonostante il successo cinematografico, è una donna infelice. Morirà di lì a breve il 5 agosto 1962, il referto di morte parlerà di suicidio per consumo eccessivo di barbiturici, ipotesi alquanto probabile viste le condizioni di estrema fragilità psicologica che l'attrice stava attraversando ormai da diverso tempo. In quel set fotografico realizzato in una camera d'albergo, in un torrido agosto californiano, Marylin Monroe cristallizzò per sempre le dinamiche del desiderio, da quel momento non fu più solamente un'attrice, divenne puro mito di bellezza.

Marylin stava attraversando un periodo lunghissimo fatto di degenze in cliniche psichiatriche, matrimoni falliti e cause con le case cinematografiche per la sua incostanza sul lavoro. Era una donna chiacchierata per essere stata l'amante di entrambi i fratelli Kennedy, e portava con sé un dolore psicologico profondo e radicato che molto probabilmente condusse la donna a togliersi la vita. Eppure gli scatti di Stern riescono a cogliere una bellezza assoluta che sembra andare al di là della dimensione umana. Marylin è colta nella sua essenza più profonda, fragile e insicura, è una donna che chiede di essere amata, non posseduta, e tra il suo corpo nudo e lo sguardo di chi la contempla esiste solo un velo trasparente, eppure un velo impossibile da far cadere. La bellezza dell'attrice si allontana dalla classica visione di armonia e di attrazione delle forme, anche e nonostante le nudità che sono forti e pronunciate in alcune fotografie. Marylin assurge a icona di femminilità e di seduzione paradossalmente attraverso la sua interiorità, che attrae perché quel corpo, impossibile da raggiungere, è solo immagine, traccia, ombra di una bellezza di cui è solo rappresentazione, copia, Ymago appunto. Marylin è apparizione del Bello, è l'evento che afferma che la bellezza esiste solamente perché appartiene ad una dimensione altra che non può essere colta né posseduta, ma solamente desiderata. La dimensione della bellezza in Marylin ha a che vedere con la potenza del desiderio, che è sempre un passo davanti a noi, a un centimetro dalle nostre mani, ma di fatto irraggiungibile. Le fotografie di quell'ultimo setting testimoniano la distanza tra lo sguardo e l'oggetto del desiderio, uno iato che sempre si pone tra la dimensione terrena del piacere umano e quella parte di alterità che è inafferrabile, distinta dal nostro cammino terreno e che possiamo solo intravedere negli occhi di qualcun altro. La bellezza è sempre epifania, evento, mentre la fotografia può congelare quell'attimo proprio perché si pone come un diaframma, ostacolo eppure sintesi, mediazione necessaria tra ciò che vediamo e poi in un secondo tempo raffiguriamo. La fotografia è un tentativo estremo, scambio impossibile e dunque fallimentare per poter cogliere almeno per un attimo la bellezza, eppure proprio perché estremo finisce con l'essere strumento privilegiato per spingersi oltre, un po' più in là verso la meraviglia.


Qualche tempo dopo il servizio fotografico del Bel-Air, Marylin Monroe fu chiamata per approvare o meno le fotografie di Stern. L'attrice segnò con un pennarello indelebile gli scatti che non voleva fossero mai pubblicati, pose sopra le immagini fotografiche dei segni come tante croci. Due settimane dopo l'attrice morì nella camera da letto della sua casa di Los Angeles, la trovarono nuda, teneva in mano la cornetta del telefono, simbolo di ciò che le mancò per tutta la vita, ovvero qualcuno che riuscisse ad ascoltare davvero il suo dolore.

venerdì 20 gennaio 2017

L'ombra della fotografia


«L'immagine è ciò da cui io sono escluso» (Roland Barthes)

Sappiamo pochissimo di questa immagine fotografica. Sappiamo che l'autore è il lituano Evaldas Ivanauskas mentre il riferimento al tempo storico e alla memoria sono incerti, poiché le persone ritratte sembrano una vedova francese con accanto il suo piccolo bambino. Pertanto il cappotto che penzola su una gruccia appesa a un filo doveva appartenere al marito della donna, un soldato morto durante la Prima Guerra Mondiale? Con tutta probabilità quel cappotto fu l'unica cosa che la donna ebbe indietro dell'uomo, solo un soprabito a cui la donna porge il braccio, mostrando un'ultima intimità, una tenerezza riservata al ricordo del marito reificato in un indumento che si trasforma di fatto in un oggetto fantasmatico.

Se appare strana una simile fotografia al nostro gusto di uomini del terzo millennio, sarà utile considerare che la pratica della fotografia post mortem fu largamente praticata fino ai primi decenni del Novecento. Un'attività che consisteva nel fotografare una persona da poco dipartita, poco prima che il suo corpo venisse tumulato. Al tempo farsi fotografare era molto costoso e poche persone potevano permettersi dei ritratti fotografici, così una di quelle rare occasioni consisteva proprio nell'immortalare un proprio caro prima che il suo corpo venisse sepolto. Quelle immagini erano le ultime e uniche testimonianze di quei volti, spesso erano ritratti insieme ai genitori o ai fratelli e sorelle, eppure quelle foto di cadaveri a cui erano state colorate le gote, tenuti gli occhi aperti artificiosamente o addirittura tenuti in piedi con dei trespoli, divenivano dei ricordi insostituibili, in quanto uniche testimonianze di una persona cara. Tale pratica sparì quasi completamente quando la fotografia si diffuse e i costi diventarono sostenibili, da quel momento farsi un ritratto fotografico in momenti importanti della propria vita divenne una consuetudine.

Eppure in questa foto qualcos'altro cattura l'attenzione: è forse il volto spaurito del bambino a cui è stato infilato il cappello del padre, come una dura eredità o in qualche modo un triste segno per il futuro, oppure è il fatto che quel cappotto appeso è lì non tanto come testimonianza dell'uomo o della sua memoria, quanto piuttosto perché in quell'oggetto sembra condensarsi una vera e propria psicosi allucinatoria. Paradossalmente quel cappotto incarna il desiderio della donna, desiderio di non lasciare andare via il marito deceduto, desiderio e volontà non tanto evocate attraverso l'oggetto, ma dentro lo stesso oggetto. Per questa ragione la donna cerca un contatto intimo con l'oggetto, standogli a braccetto e provando addirittura ad abbozzare un timido sorriso. Se è vero, come afferma Roland Barthes, che nella fotografia un soggetto si sente diventare oggetto, sperimentando l'esperienza della morte, allora tale principio vale anche per il suo percorso opposto e contrario: ovvero quando l'oggetto assume su di sé i connotati del soggetto, vera e propria sineddoche di un movimento magico che sembra trattenere allo stesso tempo l'amore della donna e il suo fantasma, ciò che sembra perdurare dopo la morte. Saremmo così di fronte ad una fotografia che ritrae un non-morto, perché non sopravvive il ricordo dell'uomo, non viene cristallizzato un volto e un'espressione, bensì l'ombra dell'oggetto che cade sull'Io della donna e del bambino.

Quello che la fotografia riproduce ogni volta è proprio la certificazione di essere diventati tutt'uno con l'immagine, perché quello che osserviamo non c'è più o perlomeno non potrà più essere così com'è stato fotografato in quel preciso momento: ogni fotografia dunque è in relazione diretta e profonda con un oggetto che restituisce il nostro sguardo, ricordandoci qualcosa che abbiamo perduto e che continuiamo a perdere tutte le volte che guardiamo e riguardiamo le nostre immagini fotografiche.