Nella scuola dei miei tempi esisteva
solo il tema di italiano, non si poteva scegliere tra diverse
tipologie come l’analisi del testo letterario, argomentativo o
espositivo; venivano
assegnate solo un paio di
tracce su argomenti che potevano riguardare i massimi sistemi oppure
in alternativa si poteva
svolgere il fatidico e
insidioso tema di attualità, che
era quasi sempre mellifluo
e scivoloso, perché se sostenevi una tesi precisa, finiva
poi con il mancare
nel testo
una antitesi che il professore, guarda caso, maneggiava
perfettamente. Inoltre si poteva finire con
estrema facilità su
posizioni radicali (da giovani è facile) oppure non
essere sufficientemente
informati su quelle precise
tematiche, per cui alla
correzione mi ritrovavo con
puntuali annotazioni dell’insegnante che, in maniera implicita,
m’invitava
la prossima volta a scegliere un’altra traccia. Naturalmente
aveva ragione l’insegnante, anche perché i miei temi di attualità
si articolavano
sempre allo stesso modo: qualsiasi fosse il problema da affrontare e
sviscerare, alla fine delle
argomentazioni e delle analisi era
tutta colpa della società. Al tempo “la società” rappresentava
per me un
ordine simbolico perfetto,
con cui potevo
scaricare
tutta la colpa a qualcosa
che non si sapeva bene dove
fosse e, soprattutto, non
poteva
difendersi.
Ho
ripensato alla mia
facile propensione nel
dare la colpa alla società guardando “Joker”
di Todd Phillips, perché in
effetti ogni
aspetto della vita di Arthur Fleck sembra costruito per far sì che
il protagonista non
abbia nessuna
possibilità di salvezza, perdendo
mano a mano ogni speranza e
ogni possibilità di riscatto.
Il protagonista è affetto da disturbi psichici, ma gli assistenti
sociali non possono più somministragli i farmaci a causa dei “tagli”
alla spesa pubblica; viene licenziato perché gli
cade una pistola
che teneva con sé perché era stato aggredito, mentre si stava
esibendo in ospedale davanti
a dei bambini; la madre, apparentemente suo
unico punto di riferimento,
si rivela essere una persona con
gravi turbe psicologiche che per tutta la vita costruisce un castello
di menzogne intorno alla fragile personalità del protagonista.
Insomma la deriva morale di Arthur avviene
suo malgrado, come se la scelta di abbracciare la sua ombra,
accettando l’idea che uccidere in fondo non è niente, fosse
ineluttabile. Arthur si trasforma in Jocker in
quanto abbandonato da tutto e
tutti, perché «la
parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si
aspettano che ti comporti come se non l’avessi». Ed
ecco svelato il vero volto
della “società”: la
società sono le persone, ovvero ciascuno di noi con la precisa
responsabilità morale
di dover fare
ogni giorno la scelta giusta. In
questa direzione Joker
è
un film politico nell’accezione più ampia del termine, perché
restituisce la responsabilità di quel che accade alla volontà degli
uomini che possono determinare
il migliore o il peggiore dei mondi possibili. E infatti la discesa
agli inferi di Arthur sembra solo apparentemente coincidere con le
sommosse dei cittadini di Gotham, stanchi di vivere in una città in
mano alla criminalità; in realtà Joker viene
ad essere
il
coagulante
dell’odio e della violenza sociale, egli
è al
contempo
causa ed
effetto,
idolo
involontario e
quindi
come
ogni eidolon che
si rispetti,
forma
e figura della realtà
sociale.
Non
a caso la maschera di
Joker è il
simulacro che afferma senza
dubbi:
«Cosa
ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società
che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che
cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti».
In
questa direzione è interessate
provare a collegare il film di Todd Phillips con Taxi
driver di
Martin Scorsese, e non solo per le due eccelse interpretazioni di
Joaquin Phoenix per Joker
e
di Robert De Niro per il tassista alienato e disadattato, ma
soprattutto per il modo in cui i due protagonisti partendo
da posizioni marginali, finiscono per assurgere a immagine e simbolo
dell’indignazione popolare. Loro malgrado sia Joker che il taxi
driver vengono presi a modello dalla gente, tuttavia se dietro al
tassista c’è una sorta di volontà purificatrice (sia
pur malata),
per cui il desiderio del protagonista è di ripulire la città
dall’ipocrisia e dalla criminalità, non a caso egli parla dei suoi
propositi come di una “missione”; Joker invece
sembra
vivere
ogni cosa dentro la sua devastante e personale psicosi che
non ha finalità se non quella di consumarsi in una violenza fine a se
stessa. Entrambi sono sintomi della patologia mortale che attanaglia
periodicamente
l’umanità,
ma nel
caso di
Joker c’è
un salto di qualità poiché questa volta il sintomo coincide con la
malattia: ovvero quello che non riusciamo o non vogliamo capire e
quindi non siamo in grado di rimediare o prevenire appare e si
manifesta come qualche cosa con cui non ci identifichiamo. Joker
siamo noi, il nostro lato oscuro assunto a capro espiatorio, il
folle, l’emarginato, il diverso. Pertanto
Joker
non
può morire non tanto perché è il nemico di Bat Man,
ma in quanto nemesi assoluta di ciascuno di noi, ovvero immagine dell’ordine simbolico
che continuiamo a chiamare società.
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