Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare qua,
dove non fui mai
(Giorgio Caproni)
Come si misura il transito, il nostro passaggio sulla terra? Quali sono le cose importanti, i sentimenti, le ragioni misteriose che ci legano al posto che scegliamo di abitare o alle persone che restituiscono un senso alla nostra esistenza? Se la metafora della vita come viaggio è antica come la stessa letteratura, la domanda allora potrebbe suonare come: “Quali sono i porti presso i quali in modo apparentemente arbitrario abbiamo scelto di attraccare e, ancora, cosa succede quando torniamo nelle stesse città o attraversiamo lo stesso mare? ”.
Il poema che costituisce insieme all'Iliade la base della cultura occidentale è senza dubbio l'Odissea di Omero. Opera che segna il passaggio dalla civiltà orale a quella scritta, storia di tanti viaggi dentro un unico viaggio, primo vero e proprio romanzo di formazione. L'Odissea è la storia di un andare che è anche un tornare, una crescita esistenziale dentro l'ignoto e le sue sfide che coincidono anche con il desiderio, la nostalgia di tornare a casa. Infatti il poema sembra essere sotteso da un paradosso: ovvero quello che afferma che per crescere occorre affrontare mille sfide, attraversare il mondo conosciuto e sconosciuto, sapendo poi che tutto quel viaggiare avrà esito positivo solo se ci permetterà di arrivare là dove un giorno partimmo. Forse è per questa ragione che ci accorgiamo delle nostre radici solo quando abbiamo fatto tanta strada davanti a noi e quelle persone che, da ragazzi, ci apparivano confuse, distanti, col tempo diventano nitide, in luce: le linee del viso di un nonno, un difetto caratteriale di un genitore, ma anche le particolarità riconosciute nelle persone incontrate che ci hanno restituito qualcosa di indefinibilmente famigliare. Come se solo alcuni hanno avuto il dono di restituirci l'immagine del nostro Sé, il senso preciso del nostro appartenere a questa terra.
La poesia di Caproni parla di viaggi immobili e di sedentarietà irrequiete, mai ferme: dice che se anche indossiamo la stessa pelle, migliaia di cellule muoiono e rinascono dentro di noi e dunque siamo sempre noi stessi, nel momento in cui non siamo più noi stessi. Siamo qui, tuttavia sempre in movimento: ci spostiamo e viaggiamo, ma qualcosa di noi non ci segue mai. Ci precede, ci aspetta, rimane in definitiva come un fantasma ad abitare luoghi che abbiamo amato; strade, giardini, spiagge, paesi. Ci sono città dove ancora abbracciamo le persone che abbiamo amato, sentieri di campagna dove una figura famigliare ci cammina accanto. E non sono ricordi o nostalgia, ma la certezza che certi viaggi si fanno al contrario e che il punto d'arrivo è sempre un punto dal quale un giorno partimmo.
Scrivono i manuali che la sensazione di alterazione dei ricordi è una deformazione delle funzioni cognitive di riconoscimento (attenzione) e di recupero (memoria), inficiato da un alto valore emotivo. Ma senza emozioni non si fissano i ricordi e l'attenzione declina inesorabilmente, inevitabilmente. Senza valore emotivo le sinapsi nel nostro cervello ci ricordano solo che dobbiamo mangiare, dormire, lavarci. Affrontare il nostro ritorno è cosa più complessa, significa continuare ad andare avanti sapendo che tutto il nostro viaggiare avrà avuto un senso solamente se ci riporterà a casa, dentro noi stessi, là dove un giorno partimmo.
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