«Nella performance non c’è merce,
non c’è un prodotto da vendere,
tutto deve (…) continuare a
essere
la forma d’arte più immateriale
che esista».
(Marina Abramović)
Nel 2010 il Museo di Arte moderna
di New York (MoMA) ha dedicato a Marina Abramović la più grande retrospettiva
mai realizzata sulla performance art. L’artista serba, nata il 30 novembre del
1946 a Belgrado, è considerata un’icona dell’arte performativa, a cui si dedica
dal 1973. Alcune sue performance sono divenute famose per la forza e, in alcuni
casi, per la violenza con cui l’artista era solita spingere il proprio corpo e
la propria persona al di là dei confini che ogni individuo impone a
se stesso. Ad esempio nei primi Rhythm
il tema dell’energia prodotta dal dolore e l’idea del corpo inteso come mezzo
di conoscenza profonda del sé costituiscono la sua principale fonte
d’ispirazione, mentre è l’idea di limite inteso come soglia per un nuovo, più alto grado di consapevolezza, ma anche
come barriera da non oltrepassare,
che sembra attraversare tutta l’opera di Marina Abramović. Per queste ragioni
l’artista è rimbalzata spesso nelle cronache dell’arte contemporanea accompagnata
da aggettivi quali “estrema” o “radicale”, ma suscitando sempre e comunque emozioni
fortissime.
Sorprende allora scoprire che
nella rassegna preparata dal MoMA in cui è stato affidato a trenta giovani
artisti il compito di rimettere in scena le principali performance della
Abramović, l’artista abbia deciso di eseguire una particolare e inedita performance:
infatti dal 14 marzo al 31 maggio Marina Abramović si è messa a disposizione
del pubblico, restando immobile su una sedia, in una grande sala vuota, per sei
giorni alla settimana dall’apertura alla chiusura del museo. Chiunque poteva
sedersi e rimanere tutto il tempo che desiderava davanti a lei, e a chiunque
l’artista ha dedicato il suo tempo, lo sguardo e i suoi occhi fissi negli occhi
dell’ospite del momento. Senza proferire una parola, senza un movimento: solo i
suoi occhi dentro gli occhi di uno sconosciuto. Non sorprenderà allora sapere
che un particolare alquanto significativo della performance di Marina Abramović
è da individuarsi nella forte teatralità della scena poiché, se è vero che la
stanza era praticamente vuota (solo un tavolo e due sedie poste una davanti all’altra),
è altresì vero che l’artista era sempre vestita con abiti lunghi e colorati e,
tra una persona e l’altra, lo sguardo era sempre rivolto verso il basso con gli
occhi chiusi. Solo quando il nuovo ospite prendeva posto, solo in quel momento,
il capo si alzava di nuovo e gli occhi si aprivano. Sì, aprirsi è il verbo esatto perché Marina Abramović era davvero lì
per ciascuno delle centinaia di persone che si sono succedute sulla sedia
davanti a lei. Un’apertura verso l’altro come se fosse stata la celebrazione di
un rito purificatore; e non è un caso che molte persone che hanno partecipato
alla performance si sono commosse fino alle lacrime. Specchiandosi negli occhi dell’artista
si sono visti riconsegnare la propria immagine, senza poter fingere e senza
poter mentire a nessuno, soprattutto a se stessi. Se la performance è un’espressione
artistica dove è il corpo, i suoi atti e i gesti, che creano un’opera d’arte allora
stare seduti, immobili, con gli occhi a cercare altri occhi di un altro
individuo, può solo significare che è il silenzio lo spazio di mediazione tra l’artista
e il suo pubblico. La performance ci parla senza dubbio della necessità di
rallentare la nostra corsa quotidiana e di prendere coscienza dell’affanno e
dell’ansia per i nostri tempi accelerati, perché davvero non c’è bisogno di
parlare se i nostri occhi s’incrociano negli occhi di uno sconosciuto. Quello
che secondo Sartre è «l’abisso degli occhi dell’altro», Marina Abramović lo ha
trasformato in un incondizionato atto d’amore, restituendo alla dimensione
della relazione umana (anche se fatta di silenzio) la nostra profondità di
senso e, in definitiva, la nostra ansia di verità.
Forse il segreto della
performance è racchiuso proprio nel titolo: The
artist is present, là dove è la presenza
a dare valore e significato all’esibizione artistica. Se ogni cosa, oggi, sembra
vivere in continua assenza del nostro io e nell’assidua moltiplicazione dei
nostri alias, avatar, allora Marina Abramović ha posto con forza la necessità
del corpo, dell’esserci, nonché l’ineluttabilità dello sguardo e degli occhi
riversi negli occhi di un altro-da-noi. Possiamo ingannare il mondo intero, continuare
a mentire a noi stessi e anche far finta di crederci, ma difficilmente
riusciremo a fingere se uno sguardo ti porrà una semplice e sola domanda: io
sono qui per te, e tu?
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